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Il lavoro (im)possibile nel teatro

Il lavoro (im)possibile nel teatro

- Recitazione e regia tra aspirazioni e opportunità per i giovani. Ma per le donne la strada è tutta in salita. Ne parliamo con Daniela Bortignoni, dell’Accademia nazionale d’Arte drammatica Silvio D’Amico

Alma Daddario Mercoledi, 01/07/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2015

 Oltre a essere autrice di numerose sceneggiature per il cinema e la televisione, Daniela Bortignoni è vicedirettrice dell’Accademia nazionale d’Arte drammatica Silvio D’Amico, coordinatrice del Master in drammaturgia e sceneggiatura, responsabile del Corso di regia, docente di drammaturgia e analisi testuale.



Cosa cercano i giovani nel teatro, in questo periodo storico particolarmente critico per il settore cultura?

Bisognerebbe chiederlo ai nostri allievi. Alcuni forse non ne sono del tutto consapevoli, ma direi un impegno di vita e una possibilità di comunicazione meno scontata e falsata da condizionamenti omologanti.

Oltre al lavoro sui grandi classici, che rilievo dà l’Accademia alla drammaturgia contemporanea?

L’Accademia è “accademica” solo di nome. Nasce per volontà di Silvio d’Amico come una scuola sperimentale: un luogo dove creare, come in laboratorio, una nuova figura, quella del regista, che in Italia ancora non esisteva, e dove mettere al centro la testualità. È stata una scuola d’avanguardia sin dalla fondazione, in continua trasformazione, aperta e pronta ad accogliere le esperienze e le ricerche espressive più diverse.

Oggi, per proseguire su questa strada, l’Accademia - da cui sono usciti autori contemporanei di rilievo, primo tra tutti Andrea Camilleri - ha aperto un Master in drammaturgia e sceneggiatura, per sperimentare non solo una riflessione sulla scrittura teatrale, ma stimolarne l’innovazione e la pratica.

Cosa si aspetta chi si iscrive, in termini di possibilità e sbocchi professionali?

Si aspetta di riuscire ad andare su un palcoscenico o su un set. Si aspetta quello che è successo ad altri allievi: da Vittorio Gassman a Massimo Popolizio, da Bice Valori a Maria Paiato, da Tino Buazzelli a Carmelo Bene, da Rossella Falk a Margherita Buy, da Carlo Cecchi a Pierfrancesco Favino, Alessio Boni, Fabrizio Gifuni e Luigi Lo Cascio, che sono stati compagni di classe, solo per citarne alcuni tra i più noti. I giovani si aspettano di lavorare, e - se oltre ad essere bravi hanno anche un po’ di fortuna - ambiscono a fare la storia del teatro e del cinema italiano. Per i registi hanno modelli che vanno da Luca Ronconi a Emma Dante e Arturo Cirillo. Negli ultimi anni il numero di allievi diplomati che trovano uno sbocco professionale è esponenzialmente aumentato, grazie ad una direzione, quella di Lorenzo Salveti, regista e pedagogo, che è stata attentissima alla formazione, ma anche alla creazione di una rete di rapporti con Enti produttivi teatrali nazionali e internazionali, bacino di possibilità concrete. Inoltre il cinema e la televisione, per la prima volta nella storia dell’Accademia, sono diventati parte del nostro percorso formativo.

Il corso di regia di cui è responsabile, è frequentato, in percentuale, più da ragazzi o da ragazze?

Da quando mi occupo del corso di regia, dal 2006, vedo una lieve percentuale in aumento di ragazzi rispetto alle ragazze. Sempre meno giovani donne si iscrivono per chiedere l’ammissione. È un segno della crisi, e della crisi che riguarda soprattutto il lavoro femminile, ma va anche tenuto conto che il corso di regia ogni anno ammette pochissimi allievi, al massimo cinque. Ci sono stati anni anche con un solo allievo, o allieva, come Rita de Donato, diplomata nel 2011. Il numero ridotto è dovuto al fatto che il percorso didattico di un allievo regista costa, e costa molto, alla pubblica istruzione. Rispetto al passato, infatti, gli allievi registi lavorano nel triennio a numerose messe in scena, gradualmente più complesse, e via via sempre più indipendenti dalla supervisione dei docenti. Gli allievi registi hanno per lo meno due debutti all’anno, spesso tre.

Una bella differenza rispetto al passato in cui era previsto solo il saggio di diploma finale. L’esperienza di Pasolini poeta delle ceneri andato in scena alla Pelanda di Roma, è una di queste “esercitazioni guidate”. Credo che la regia si possa insegnare solo introducendo il giovane regista in un apprendistato, culturale e teorico, ma soprattutto pratico. Un’esperienza di crescita artistica i cui presupposti sono impostati dai docenti, ma la cui prassi è gradualmente sempre più autonoma dai maestri. È così che i nostri allievi crescono.

Trova che in Italia ci sia un atteggiamento di diffidenza, nei confronti delle registe? Forse c’entra il fatto che si tratta di un ruolo più decisionale, rispetto a quello dell’attore?

Indubbiamente c’entra il ruolo decisionale. Il regista è un ruolo fatto non solo di doti artistiche, ma anche di carisma, capacità gestionale e organizzativa. È, sia in teatro che in cinema, il centro che controlla e determina ogni scelta. Quante donne vediamo in Italia in ruoli di potere assimilabili? Abbiamo poche figure di rilievo tra le registe di successo e mi sembra di notare, con un certo scoramento, che non ci sia un’inversione di tendenza. Le registe le possiamo contare sulle dita: Liliana Cavani, Lina Wertmuller, Francesca Archibugi, Cristina Comencini, Antonietta De Lillo, Alina Marazzi, Esmeralda Calabri, Cinzia Th Torrini - alcune di loro hanno insegnato in Accademia - per il cinema, il documentario e la televisione, Andrè Ruth Shammah, Emma Dante per il teatro, e quante altre?

Quali sono le differenze, con il panorama europeo, e quello USA?

La sensazione a pelle, basata su esperienze personali e non professionali, è che la cultura anglosassone sia molto più attenta e aperta alla creatività femminile. Conosco un poco la Francia, per esserci stata due anni, giovane normalista italiana ospite della più titolata scuola transalpina. Nel 1982 le registe in Italia erano strane eccezioni, in Francia una signora come Ariane Mnouchkine aveva fondato e dirigeva un teatro che univa esperienze, attori e collaboratori provenienti da tutta Europa: il “Thèatre du Soleil”. Parigi sembrava, ai miei occhi di ventenne, un altro mondo. Specie per una donna.

È giusto parlare di “regia di genere”, come per la scrittura?

Non amo questa distinzione nemmeno in letteratura. Jane Austin, Charlotte Brontë, Virginia Woolf, Marguerite Yourcenar, Elsa Morante, Alice Munro sono letteratura di genere? Secondo me si può parlare solo di letteratura di livello, più che di genere, e questo per tutte le arti.

Quali sbocchi professionali possibili, per le giovani che vogliano scegliere questa professione?

Su questo in Accademia lavoriamo molto. È un impegno quotidiano quello di tessere relazioni con le realtà produttive. Molti dei nostri ragazzi trovano un impiego in queste realtà, e lavorano facendo quello per cui hanno studiato. Oggi è un grande successo.

Un commento a una frase provocatoria di Fausto Paravidino: “Conosco diverse registe donne in teatro, e sono i registi più virili che conosca”.

La solita storia: una donna in gamba è una donna con le palle o con gli attributi, se ha una bella testa e ragiona come un uomo: per comandare devi indossare i pantaloni. È un’ossessione per il sesso maschile, portare le donne che possono eccellere a non essere donne, a essere come loro, come fossero un errore di natura, con un gene anomalo, una X al posto di una Y. Ma non è divertente che sia uno dei giovani autori più intelligenti e affermati del nostro panorama teatrale a perpetrare questa storia.

Info: http://www.accademiasilviodamico.it/



Foto di Tommaso Le Pera.

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