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Il femminicidio di Giulia Tramontano: un mese di parole e pregiudizi

Il femminicidio di Giulia Tramontano: un mese di parole e pregiudizi

#Losapevamotutte, abbiamo detto. E nel mese trascorso da quel giorno sono state dette tante altre cose sulla violenza di genere

Venerdi, 30/06/2023 - Il 1° giugno è stato ritrovato il cadavere di Giulia Tramontano e il suo compagno ha confessato di averla uccisa. #Losapevamotutte, abbiamo detto. E nel mese trascorso da quel giorno sono state dette tante altre cose che ci spiegano perché lo sapevamo tutte anche se al contempo tanti e tante dicono che è incredibile che sia successo.
Ma partiamo da qualche giorno prima di giugno. L’11 maggio il parlamento europeo ha approvato la ratifica della Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica - nota anche come Convenzione di Istanbul -, fondamentale strumento internazionale volto a prevenire e sradicare la violenza sessista, firmata nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013. Nella votazione dell’11 maggio i parlamentari europei di Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti, due di loro hanno votato contro. Non solo questa scelta dimostra inequivocabilmente una volontà patriarcale di negazione della libertà e della pari dignità alle donne, ma per giunta questo accade proprio mentre quei partiti hanno sostenuto una donna per la prima volta alla presidenza del consiglio dei ministri italiano: evidentemente lei e chi la sostiene non sanno quante lotte e quante vite di donne ci sono volute per consentirle di occupare quel posto, e al contempo non comprendono che la sua personale libertà né garantisce la libertà delle altre né è intoccabile. Fratelli d’Italia spiega che «con la nostra astensione abbiamo voluto ribadire la nostra preoccupazione sulle tematiche legate al gender», parola usata come spauracchio di pregiudizi ridicoli sessisti e omofobi, in un Paese ridicolo sessista e omofobo. “Gender” è la parola inglese per “genere” e significa che è la nostra cultura ad aver attribuito un certo ruolo a uomini e donne, non la natura, ed è la nostra cultura ad aver discriminato per millenni e a continuare a discriminare e uccidere le donne proprio quando noi donne scegliamo di esercitare il nostro diritto umano alla libertà di uscire da quel ruolo. Questo significa femminicidio: non uccisione di una donna, ma uccisione di una donna in quanto donna, cioè in quanto donna che si è ribellata al ruolo impostoci dal patriarcato, patriarcato di cui è fedele esponente chi disapprova la Convenzione di Istanbul e utilizza la parola gender come spauracchio. La violenza maschile contro le donne, scrive Giulia Blasi, è «un metodo di controllo sociale».
Quello di Giulia Tramontano è stato un femminicidio, eppure non tutti i femminicidi sembrano uguali: mentre quello di Giulia ha occupato per giorni la cronaca, i programmi di intrattenimento e le conversazioni da bar, tanti altri a malapena vengono nominati. Giulia era giovane, bella, e soprattutto incinta, per questo la sua uccisione fa notizia e molti percepiscono la sua morte come la morte di due persone. Non è affatto insolito che i femminicidi riguardino donne in gravidanza: Monica Ravizza nel 2003 fu accoltellata dal suo compagno che provò anche a darle fuoco, Jennifer Zacconi nel 2006 fu sepolta viva dal suo compagno, Barbara Cicioni nel 2007 fu soffocata da suo marito, Marilia Rodrigues Silva Martins nel 2013 fu strangolata dal suo compagno che provò anche a darle fuoco, Ana Maria Lacramioara Di Piazza nel 2019 fu accoltellata dall’uomo con cui aveva una relazione; tutte queste donne erano incinte e sono state uccise dagli uomini che l’anagrafe avrebbe definito padri dei loro figli. Che “genere” denunci una costruzione culturale vi crea un disagio, ma che “padre” individui un assassino davvero non vi crea nessun disagio? Per la cronaca, la Corte d’assise d’appello di Palermo ha recentemente ridotto la pena inflitta all’assassino di Ana Maria escludendo le aggravanti della premeditazione e della crudeltà. «Mi dica lei cos’è l’atrocità» ha replicato la madre di Ana Maria.

Il 1° giugno appaiono i soliti commenti di ignoranti: «era un bravo ragazzo», mai se lo sarebbero aspettati «da questa faccia d’angelo», «era sconfortato». Con che coraggio continuate a definire incredibile e inaspettato qualcosa che accade di continuo? Non è che state scaricandovi la coscienza perché ciò che è imprevedibile nessuno può fare niente per evitarlo? Sempre il 1° giugno alcune decine di donne si ritrovano in piazza a Napoli e stendono a terra un tappeto rosso «simbolo del sangue versato». Sogno un mondo senza più bisogno di scarpe rosse.
“Mostro” è una parola che ho sentito pronunciare spesso in questo mese. Ma gli uomini che uccidono le donne non sono affatto mostri, sono semplicemente uomini, come scrive Giovanna Ferrari – madre di un’altra Giulia uccisa da suo marito – sono «feroci uomini comuni, non mostri, che spesso continuiamo a descrivere come bravi ragazzi, giustificandoli. E giustificandoli incentiviamo altre normali mostruosità: è la banalità del male». I maschi di questo mondo considerano le donne pezzi di macelleria, si sentono liberi di commentare, possedere e distruggere quegli oggetti, parlandone con i propri amici davanti ad una birra dopo la partita. Perché solo così si è veri uomini: se non si dice qualcosa di volgare e sessista ogni tot ore la patente di uomo rischia di essere ritirata. Non sono mostri gli uomini che ci uccidono, perché “mostro” è qualcuno di diverso da noi, mentre ad ucciderci sono gli stessi uomini che fischiano ad una bella ragazza dicendole quello che vorrebbero farle, sono gli stessi uomini che alla partita di calcio dicono al loro bambino di non fare la femminuccia, sono gli stessi uomini che si complimentano con una professionista per il suo aspetto estetico e non per le sue capacità. «Non esiste al mondo un uomo che prima o poi non abbia compiuto almeno un’azione, pronunciato una frase denigratoria, agito una forma di sopraffazione anche minuscola, impercettibile, normalizzata» scrive ancora Giulia Blasi. «È tutto parte dell’educazione maschile, compreso il vittimismo di chi pensa che ogni femminicida sia un insulto agli uomini “buoni” e di chi di violenza non vuole sentire parlare perché non ha mai fatto niente, lui». Nove anni fa, il 17 giugno 2014, Vittorio Feltri scriveva su “il Giornale” che «non può essere vero che un uomo perbenino, dottore commercialista, coniugato con una brava e gradevole signora, padre» possa averli uccisi tutti e tre e poi sia andato a vedere la partita; «una schifezza di uomo», lo definiva, «un individuo che non credevamo potesse esistere e vivere nel consorzio civile senza destare il sospetto d’incarnare il malvagio». Era l’assassino di Maria Cristina Omes, del suo bambino e della sua bambina. Passano gli anni ma le parole non cambiano. Feltri scriveva che «è impossibile capire, trovare spiegazioni», eppure basterebbe studiare un minimo di storia e riflettere sul presente per individuare quella spiegazione così tanto palese ed evidente che viene quotidianamente negata. Meglio parlare di «follia» come fece Feltri, come fate oggi, perché la follia è degli altri, non è nostra, e perché la follia si può curare con un po’ di psicofarmaci mentre la cultura no, si cura solo se noi decidiamo di curarla. Ed è ormai chiaro che la maggior parte di noi non ha nessuna intenzione di farlo. Anche la madre dell’assassino di Giulia ha definito suo figlio «mostro» aggiungendo però che «lui non era così». Lui era ed è così.

Le donne devono imparare a proteggersi e non devono andare all’ultimo appuntamento, hanno detto in tanti e tante, nonostante tale avvertimento neanche si adatti al caso concreto di Giulia Tramontano. L’ha detto anche la procuratrice aggiunta di Milano Maria Letizia Mannella, che in quanto assegnata al dipartimento soggetti deboli e persone vulnerabili dovrebbe essere adeguatamente formata in tema di violenza di genere. Eppure nessuno, nessuno, nessuno dice agli uomini di smetterla di ucciderci! Questo ragionamento perverso implica due conseguenze: da un lato colpevolizza noi donne per non essere abbastanza attente e quindi per finire uccise; dall’altro presuppone che gli uomini non siano in grado di redimersi, che siano bestie soggiogate dalla propria indole violenta e quindi che siano, per il solo fatto di essere uomini, incapaci di intendere e di volere. Ma se così fosse non servirebbe una perizia psichiatrica in ogni processo per femminicidio, servirebbe piuttosto un’interdizione collettiva alla nascita dei maschi visto che non sono in grado di vivere nella società degli umani rispettando le loro simili, ma non credo che ci sia questo progetto di legge al vaglio del parlamento, quindi no, non è vero che gli uomini sono incapaci di intendere e volere, intendono benissimo e vogliono moltissimo. Ciò che è necessario fare è ribaltare la narrazione: non date a noi donne il compito di proteggerci, imponete agli uomini il dovere di rispettarci! Non date a noi donne il compito di indovinare quale sarà l’ultimo appuntamento, date agli uomini il compito di non progettarne uno! Non date a noi donne il compito di valutare il rischio, date agli uomini il compito di eliminarlo per sempre! Lucia Annibali, intervistata il 3 giugno su “il Riformista”, chiarisce: «Io parlerei agli uomini, più che alle donne. Bisogna far capire bene che una donna muore non perché si reca all’ultimo appuntamento o perché è sprovveduta e non si è protetta abbastanza. Muore perché ha incontrato un uomo violento. Punto». Il 7 giugno il presidente del Senato La Russa dichiara di voler indire una manifestazione di soli uomini perché «c’è bisogno di prendere coscienza noi uomini» e che «il rispetto per le donne nasce in famiglia»; proposta condivisibile, se non fosse per la frase immediatamente successiva: «se vedi tuo figlio che manca di rispetto a una ragazza, tiragli un ceffone, ma tiraglielo forte». Se la violenza è sbagliata è sempre sbagliata, e il messaggio di rispetto non può essere trasmesso con un gesto violento, perciò non usare il ceffone per dire a tuo figlio che è sbagliato mancare di rispetto ad una ragazza, spiegagli che quella ragazza ha e deve avere la stessa libertà che ha lui, e spiegagli perché. E prima di tutto fai in modo di esserne convinto tu stesso. Giusi Fasano scrive, il 4 giugno, che «abbiamo costruito abbastanza condanna sociale per pensare “è stato lui”, ma non ne abbiamo costruita abbastanza per educarlo al rispetto». La prevenzione culturale è ciò che sostiene primariamente la Convenzione di Istanbul, non la punizione, perché solo la prevenzione culturale è la soluzione. E la prevenzione culturale inizia alla nascita, inizia dal rosa e azzurro, inizia da macchinine e bambolotti, inizia da fermagli per capelli e spade laser, inizia dalle principesse e dai supereroi. Il cambiamento culturale inizia da voi, da tutte e tutti noi, ogni giorno, ogni minuto.
Nonostante questa innegabile verità sia ormai urlata da tutte le attiviste e le associazioni impegnate nella lotta alla violenza maschile, purtroppo parlare di sicurezza porta più voti che parlare di educazione, perché parlare di sicurezza attribuisce la responsabilità di garantirla a qualcun altro, ad un’istituzione, mentre parlare di educazione attribuisce la responsabilità di cambiarla a noi, e di certo cambiare il nostro modo di vivere è assai più difficile che aumentare gli agenti di polizia in strada. Così, come sempre accade, il 7 giugno, il consiglio dei ministri – espressione di quella stessa parte politica che in UE si rifiuta di ratificare la Convenzione di Istanbul – proclama di aver predisposto nuove misure legislative dimostrando la sua ignoranza, perché rispondere alla violenza maschile con nuove leggi significa non aver capito di cosa stiamo parlando. Tra le geniali proposte leggo che l’uomo ammonito dal Questore potrà subire il ritiro delle armi detenute, cosa già prevista e già poco efficace, visto che per uccidere bastano le mani; la pena sarà aggravata quando i reati di violenza saranno commessi da soggetto ammonito, nonostante sia evidente che la pena non dissuade gli uomini e non salva le donne; «si assicura il rapido svolgimento dei processi in materia di violenza contro le donne» in un Paese noto per le sue vergognose lungaggini; si prevedranno 30 giorni per richiedere una misura cautelare e 30 giorni per decidere, quando per morire uccisa basta qualche minuto. Tra le proposte ce ne sono anche di palesemente incostituzionali: l’«arresto in flagranza differito per chi sarà individuato in modo inequivocabile quale autore di una condotta» violenta e la «provvisionale a titolo di ristoro anticipato» dimenticano che per il nostro sistema giudiziario si è innocenti fino a sentenza penale passata in giudicato. Tra le proposte ce ne sarebbe anche una valida: l’obbligo per le Procure di individuare magistrati specializzati; è l’unica misura che pensa alla formazione di chi deve giudicare, tanto più che qualche riga più avanti un’altra proposta prevede che sia il giudice ad accertare l’«esito favorevole» della partecipazione del condannato ai percorsi di recupero; ma la magistratura è davvero disposta ad abbandonare le proprie certezze e a studiare cos’è la violenza maschile? La relazione della commissione parlamentare sul femminicidio e le condanne da parte della Corte europea dei diritti umani ce ne fanno dubitare.
Qualcuno che lavora ogni giorno con la legge è tuttavia consapevole che la legge non è la soluzione: Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano, una delle pochissime luminose eccezioni che all’interno della magistratura hanno capito di cosa stiamo parlando, il 2 giugno consiglia alle donne in difficoltà di rivolgersi ai centri antiviolenza dove esperte competenti sapranno aiutarle, «la denuncia è, se necessaria, una passo successivo». “Se”, un grande se. La denuncia non è la soluzione. Denunciate, gridano a noi donne. Non dateci motivi per denunciare, grido io. Roia, pur essendo un giudice penale, non mette la denuncia e il processo al primo posto contro la violenza maschile perché è consapevole che «nel nostro contesto culturale è ancora incrostata l’idea che la donna sia qualcosa di mia proprietà di cui posso disfarmi». “Incrostata”, anche questa è una parola azzeccata: la cultura maschilista fa talmente parte di noi che non riusciamo a vederla e non riusciamo a vederne le conseguenze. “Incrostata”, come il fango seccatosi dopo un’alluvione.
Qualche ufficio più in là, ancora il 2 giugno, il GIP convalida il fermo del compagno di Giulia ma nella sua ordinanza non ravvisa la premeditazione. È davvero difficile capire cosa la magistratura voglia per riconoscere l’esistenza della premeditazione, un’esistenza così spesso evidente eppure così spesso negata. E anche questo lo sa bene la Giulia figlia di Giovanna Ferrari, attirata in una trappola da suo marito eppure vittima di una lite scatenata dal suo stesso comportamento sconsiderato secondo la sentenza che ha condannato il suo assassino che oggi, dopo solo tredici anni, è già libero. E la storia si ripete: il 13 giugno il tribunale di Busto Arsizio esclude l’aggravante della premeditazione e dei motivi abietti condannando l’assassino di Carol Maltesi, uccisa a martellate e fatta a pezzi nel gennaio 2022.
Nello stesso giorno del proclama governativo sulle nuove norme leggo che Sky ha sospeso Matteo Bobbi e Davide Valsecchi che durante il gran premio hanno commentato il corpo di una donna – una specifica parte del suo corpo – senza percepire assolutamente il disvalore delle proprie parole. D’altronde non è passato molto tempo dall’ultima pacca sul sedere data in diretta ad una giornalista. È questo il mondo in cui viviamo! E fintanto che non si collegheranno tutti questi elementi come sintomi della stessa cultura che uccide noi donne non si avrà capito di cosa stiamo parlando. E chi, tra gli altri, non ha capito di cosa stiamo parlando scrive su “il Giornale”: «Se due maschi si permettono di scherzare parlando del sedere di una ragazza arriva l’inquisizione che brucia tutto come “sessista” e ogni volta che sento questa parola ho un brivido di ribrezzo, quasi come se scherzare sulle pulsioni maschili possa armare le mani degli assassini […] viva Bobbi, Valsecchi e le loro battute». Riflettendo parola per parola: due uomini che commentano il corpo di una donna non stanno “scherzando”, stanno commentando il corpo di una donna; questo comportamento è sessista, e non riuscire a vedere il collegamento che esiste tra l’oggettivazione del corpo femminile e la violenza maschile significa, lo ripeto, non aver capito di cosa stiamo parlando; infine, per aggiungere un pizzico di storia all’analisi del linguaggio, l’inquisizione puniva la libertà di pensiero, il sessismo punisce e rifiuta la libertà delle donne. Il 15 giugno la senatrice australiana Lidia Thorpe denuncia di essere stata aggredita sessualmente in Parlamento, affermando che neanche quello è un luogo sicuro per le donne. Quanti le crederanno? Quanti diranno che è una bugiarda opportunista? Quanti dichiareranno la propria solidarietà agli uomini di turno, povere vittime dell’“inquisizione” femminista?
La storia di Giulia Tramontano è simile a quella di tante altre donne, ma ha una peculiarità: tra lei e l’altra compagna del suo assassino si era creata una solidarietà, una sorellanza, di cui spesso noi donne veniamo accusate di non essere capaci e che invece è uno strumento fondamentale per la nostra libertà. A quanto leggo l’altra ragazza si era offerta di ospitare e aiutare Giulia, e le aveva scritto quando lei era già morta. Anche questo affetto, anche questa possibilità ha voluto spazzare via il suo assassino. Il 10 giugno leggo che Giulia è stata colpita con almeno trentasette coltellate. Trentasette. Provate a contarle. Un mazzo di fiori di oleandro è stato lasciato davanti all’istituto di medicina legale. L’11 giugno, sulla chiesa dove si svolge il funerale di Giulia, uno striscione recita: «L’amore regala e non priva. Protegge e non uccide».

E in questo mese il non-amore ha ucciso e tentato di uccidere parecchie volte. Il 1° giugno una poliziotta viene uccisa dal collega con cui aveva avuto una relazione. Il 2 giugno un uomo aggredisce sua moglie e tenta di strangolarla con la cinghia della borsa. Lo stesso giorno un uomo viene arrestato per aver sequestrato e violentato la sua compagna. Lo stesso giorno una donna viene uccisa da suo padre, già denunciato per violenze. Il 3 giugno un uomo rovescia del liquido infiammabile davanti alla casa della sua ex compagna dopo averla minacciata di morte. Il 7 giugno viene ritrovato il corpo di una ragazza scomparsa nove anni fa e in verità uccisa e nascosta dal suo compagno. L’8 giugno si costituisce a Sant’Antimo – lo stesso paese di cui era originaria Giulia Tramontano – il più recente adepto del delitto d’onore, che ha ucciso genero e nuora per punirne la relazione e il fatto che lei lo aveva rifiutato. Il 9 giugno viene arrestato un uomo che ha ucciso la sua compagna tenendone il cadavere in casa per due giorni. Il 10 giugno un uomo già ammonito dal Questore investe sua moglie e l’amica di lei uccidendo quest’ultima la cui colpa sarebbe aver tentato di convincere la moglie a lasciarlo. Il 12 giugno una donna viene uccisa dal marito che poi si suicida; la stessa scena si ripete anche il 13 e il 19 giugno. Il 24 giugno un uomo già condannato per sequestro di persona e lesioni nei confronti della moglie, appena scarcerato dopo aver espiato la sua pena e a dimostrazione che la pena non è un deterrente per gli uomini violenti, torna a minacciare la donna: «Non pensare di andare con un altro, tu sei mia». Il 26 giugno una bambina di dodici anni prega i carabinieri di arrestare il papà «perché picchia la mamma». Il 29 giugno una ragazza diciassettenne viene uccisa da un suo coetaneo e poi infilata in una sacco dei rifiuti, perché questo siamo per questi uomini: rifiuti di cui disfarsi. Pierpaola, Mariangela, Sibora, Maria Brigida, Floriana, Cettina, Rosa, Simona, Svetlana, Maria Michelle… tutti nomi di donne che vanno a fare compagnia a Giulia. Ci siamo abituate a contarci da morte, eppure sarebbe così bello contarci da vive.
Aggiunge Lucia Annibali, che dieci anni fa veniva fatta sfregiare con l’acido dall’uomo che non accettava la sua libertà di lasciarlo: «Occuparsi di violenza vuol dire occuparsi del mondo in cui viviamo». E noi viviamo in un mondo in cui la massima aspirazione dei ragazzi è avere followers che li guardano violare il codice della strada mettendo in pericolo sé stessi e gli altri. Viviamo in un mondo che dimentica facilmente le azioni compiute da chi muore, o forse le ricorda approvandole. Viviamo in un mondo che si mobilita per pochi ricchi che spendono una fortuna per vedere il relitto simbolo della presunzione umana, mentre non si cura di migliaia di esseri umani che fuggono dalla guerra e dalla povertà e anzi si augura che muoiano nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Viviamo in un mondo che inspiegabilmente discrimina i figli a seconda dell’orientamento sessuale dei loro genitori. Davvero vi piace questo mondo?

Ho trovato anche due buone notizie lungo questo mese.
Il 20 giugno Carla Ilenia Caiazzo – aggredita col fuoco dal suo ex nel 2016 mentre era incinta – è stata nominata presidente della commissione pari opportunità di Pozzuoli e ha inaugurato il suo incarico con parole di speranza: «Tutte noi possiamo rinascere e riprenderci la nostra vita».
L’8 giugno Gilda Sportiello – deputata del M5S – è la prima parlamentare ad entrare in aula con il suo bimbo e ad allattarlo senza doversi assentare dal luogo di lavoro. È una decisione e una libertà apparentemente piccola, apparentemente slegata da quello di cui abbiamo parlato finora, e invece è una grande libertà per Gilda e per tutte le donne che quotidianamente faticano a conciliare i tanti lati della propria vita in un mondo che a nessuno uomo chiede la stessa fatica; è «un passo importante», come ha detto lei stessa, che aveva l’anno scorso proposto la modifica al regolamento che ora le consente di sedersi col suo bimbo in aula. Il presidente di turno ha accolto la collega augurando «una lunga, libera e serena vita a Federico». Faccio lo stesso augurio a tutte le bambine e i bambini.

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