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Il benaltrismo, un consistente ostacolo per le parole al femminile

Il benaltrismo, un consistente ostacolo per le parole al femminile

Ogni scusa è buona per chi vuole negare il valore delle parole rispettose delle differenze di genere

Martedi, 16/03/2021 - Ogni qualvolta ci si ritrovi coinvolti in dibattiti o confronti sulla declinazione al femminile delle parole riguardanti le professioni delle donne, puntualmente si erge come convitato di pietra il benaltrismo. Trattasi di “un espediente retorico che consiste nell'eludere un tema o un problema posto, adducendo semplicemente l'esistenza di altre problematiche più impellenti o più generali, spesso senza chiarirle specificamente” (Wikipedia). Così, nel caso in esame, frequentemente può capitare di ascoltare o leggere “Ma come con problemi ben più seri, concernenti la condizione delle donne italiane, stiamo ancora a discutere delle parole al femminile?”. Un ragionamento di indubbio impatto emotivo, svolto con il chiaro intento di fare apparire secondario, o addirittura insignificante, l’impegno che molte donne affrontano per un linguaggio rispettoso delle differenze di genere.
Il sessismo, più che frequente nella lingua italiana, si manifesta evidente allorché vengono denominate al maschile le professioni svolte dalle donne. Termini come avvocato, architetto, ingegnere, chirurgo, sindaco non abbisognano dell’aggiunta della parola donna, o peggio ancora senza ulteriore specificazione, perché le regole grammaticali al riguardo sono ben chiare.
Ossia, le parole che finiscono con “o” al femminile prendono la “a”, mentre quelle che terminano con la “e” restano invariate, ma si accompagnano con l’articolo al femminile. Invece, in nome di un presunto "neutro" che l’idioma italiano non presenta, la declinazione al femminile stenta ancora ad essere utilizzata al proposito di specifiche figure professionali o sociali.
Indubbiamente risulta strano che su questo tema proprio le donne siano protagoniste di una battaglia in senso opposto, come quella concernente il volere mantenere il maschile per la specificazione delle mansioni lavorative da loro svolte. E sono per lo più donne quelle che puntano i piedi, ricorrendo a determinate argomentazioni benaltriste. Come se, ad esempio, l’impegno per la una denominazione rispettosa del proprio genere sia da mettere in soffitta di fronte al ben più rilevante contrasto alla violenza di genere, alle discriminazioni sui luoghi di lavoro, alle difficoltà di accesso e progressione alle carriere, tanto per indicare le questioni più dirimenti nel nostro Paese relativamente alle condizioni delle donne.
Le differenziazioni che rendono in Italia difficoltosa la vita del proprio universo femminile, con in primis la violenza maschile, vengono dalla totalità degli addetti ai lavori inquadrate come aspetti di un più generale e vasto problema culturale, caratterizzato da una realtà ove alle donne vengono riconosciuti diritti non eguali agli uomini, in virtù di una condizione di inferiorità valutata culturalmente come tale. I soggetti istituzionalmente competenti sono chiamati a porre in essere azioni precipue, mirate a debellare questa iniquità di condizione, ma ognuno di noi può e deve fare la sua parte, per quanto sia nelle sue capacità e possibilità.
Sul costo sociale della violenza di genere si sono addirittura precisati i correlati riscontri economici, perché le istituzioni chiamate a quantificarli hanno analizzato le singole voci di spesa che verrebbero coinvolte sul tema in oggetto. Esistono, però, anche misure a costo zero, perché messe in campo a livello culturale, senza necessità di particolari esborsi monetari, come quelli che, ad esempio, dovrebbero sostenersi per formare il personale sanitario, giudiziario o delle forze dell’ordine ad affrontare congruamente il contrasto alla violenza sessuata. Quanto costerebbe declinare al femminile la parola “magistrato”? Nulla, basta solo la volontà di utilizzarla ogniqualvolta ci troviamo di fronte ad una donna che svolge tale professione.
Diversamente negheremmo la realtà fattuale e, non nominandola come tale, rifiuteremmo anche l’idea che esistano magistrate, quando invece esse costituiscono il 53% del totale e se guardiamo ai giovani magistrati in tirocinio, il dato è ancora più netto, perché la percentuale di donne è del 66% (Ministero della Giustizia, 2019).
A chi, invece, preferisce fare classifiche sulle battaglie prioritarie da condurre, per rendere migliore la condizione femminile nel nostro Paese, sarebbe da contrapporre invece che diventi prioritario produrre sempre più consapevolezza sulla disomogeneità di tale condizione presente su tutti i fronti, anche quello linguistico. Ove occorrerebbe solo abituarsi ad applicare le regole già esistenti, come ben divulgato dall’Accademia della Crusca, la massima istituzione italiana che raccoglie studiosi ed esperti di linguistica e filologia della nostra lingua. “Le forme femminili riferite a ruoli istituzionali o professioni che stanno entrando nell’uso comune sulla scia dei progressi in campo lavorativo, professionale e istituzionale compiuti dalle donne sono perlopiù termini 'trasparenti' per quanto riguarda la loro struttura morfologica perché seguono le più comuni modalità di formazione dei nomi”(Accademia della Crusca).
Maestro-maestra, chirurgo-chirurga, sindaco-sindaca, avvocato-avvocata si configurano quali puntuali esempi della regola per la quale, in italiano, le parole che finiscono in “o” al femminile prendono la “a”. Restano invece invariate le parole che finiscono in “e”, ma prendono l'articolo femminile, come a titolo esemplificativo la giudice, la presidente. Con l'ulteriore precisazione che laddove la "e" finale sia preceduta dal suffisso, come per il caso di panett-ier-e, la desinenza finale sarà al femminile, ossia panettiera.
D’altronde le regole, in qualsiasi ambito, in tanto esistono in quanto servono a tutelare i più deboli dai più forti e, se in questo caso la grammatica ci viene incontro nel suffragare la validità della parola magistrata, perché non utilizzarla? In nome di un meglio non precisato “Le questioni sono altre!”? Ebbene no, tutto è “questione”, se va ad inficiare la condizione delle donne, come per l’attribuzione di un termine ingiusto, e per lo più sbagliato, alle professioni da loro esercitate. E non si venga a contrapporre a questa argomentazione che la declinazione al femminile “suoni male” perché “cacofonica”, visto che una giustificazione del genere non tiene conto che le nuove parole in tanto si consolidano nell’uso comune in quanto comincino ad essere diffuse.
Il linguaggio è convenzione, ossia approvazione, quindi cosa osta a che si accettino termini come magistrata? Non v’è neppure un onere economico ad usarle, conseguentemente perché non ricorrere ad esse? In virtù di una hit parade delle battaglie ideali da condurre in nome e per conto delle donne italiane? Ebbene no, visto che ogni fronte di diseguaglianza di genere è degno di rispetto, sempre che ci si ritrovi con l’obiettivo finale di rendere il nostro Paese più a misura di donne. E nominarle come magistrate, ad esempio, è già segno di rispettarle, perché suffragandone la realtà con una parola, benché nuova, si rende onore alla loro esistenza come tali. E, scusate, se è poco!

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