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Gli impazienti di Christiana de Caldas Brito

Gli impazienti di Christiana de Caldas Brito

Una figlia, una madre, uno specchio, un libro custode. Sono questi gli elementi intorno ai quali si muove la protagonista che dovrà scegliere se essere psicoterapeuta o sarta: ma non sono in fondo la stessa cosa? Non rammendano entrambe?

Lunedi, 29/04/2024 - A introdurre il nuovo romanzo di Christiana de Caldas Brito, “Gli impazienti” (Cosmo Iannone editore), c’è un esergo di James Hillman tratto da “Il codice dell’anima”: “Voglio che si guardi alle storie cliniche con la mente poetica, così da leggerle per quello che sono: forme letterarie del nostro tempo, e non relazioni scientifiche”. Chi meglio di una psicoterapeuta può prendere le storie cliniche e farne letteratura? Christiana de Caldas Brito è infatti psicologa e scrittrice e, in queste sue pagine, lo dimostra più che mai.
Il protagonista assoluto di questo libro è lo specchio, declinato in molteplici modi, e qui ne indicheremo quattro.
Il primo è quello che separa Ecìla da sua madre, una donna a suo agio nel toccare fili e stoffe ma non la figlia, una sarta china sulla sua macchina da cucire Singer il cui ticchettio scandisce i giorni e le notti e dà la cadenza ai suoi passi, il rifugio nel quale non accetta interferenze: “Lei certamente preferiva il mio silenzio. Le domande la irritavano”.
La madre di Ecìla cerca di insegnarle la vita attraverso ciò che meglio conosce, il suo lavoro, e le spiega così che a fare un vestito sono i punti dati dalla sarta, quelli che non si vedono ma ne costituiscono la colonna, che è poi ciò che caratterizza l’amore materno. È questo l’alfabeto delicato della donna, è così che le mostra che spesso ciò che non si vede costituisce la cura più grande. “In quell’atmosfera intima, vissuta accanto a mia madre, io ho imparato che la verità è nel rovescio. (…) Capiamo in profondità solo ciò che rovesciamo”.
Anche il padre di Ecìla ha un alfabeto speciale da insegnare, quello musicale: infonde alla figlia il suo amore per Maria Callas, la potenza della voce, la poesia della melodia. È quello il suo sogno soffocato, il suo dolore che le offre a mo’ di forziere.
I genitori della protagonista hanno subìto le scosse della vita assecondandole, ed è guardandoli che la figlia può comprendere che la chiave è tutta lì: “Possiamo scoprire chi siamo e cosa vogliamo dalla vita solo dopo aver disobbedito”.
La bambina ha ricevuto alla nascita un libro custode, “Attraverso lo specchio” di Lewis Carroll, il seguito di “Alice nel paese delle Meraviglie”. Ed eccolo, il secondo specchio: quello del libro che le viene letto prima di dormire, sì, ma anche quello che, riflettendo il nome Alice al contrario, mostra il suo, Ecìla. E che fa da preludio al grande specchio, il terzo, nella stanza del cucito di sua madre, dove da piccola la figlia della sarta vede una bimba come lei che appare e scompare, e le sorride ogni volta che lei sorride.
Quando la ragazza cresce, la sua vita si scuce e viene mandata da una psicoterapeuta, che lei avverte molto affine a una sarta: “In fondo, tutte e due avevano un ruolo simile: preparare una veste nuova”. Eccolo, lo specchio più rilevante, il quarto: la sarta e la psicologa, la rammendatrice di stoffe e quella di anime. Ecìla desidera diventare sarta, mentre la madre la sprona a studiare psicologia: ma non sono in fondo la stessa cosa? Entrambe le figure rammendano e riparano e, a volte, ricostruiscono. Ecìla dovrà dare una prova di grande coraggio: trovare la forza di scucire i progetti per il futuro che la madre le ha confezionato addosso.
In questo romanzo si affollano richiami e simbologie, sogni e interpretazioni, dove a essere rammendati non sono solo gli abiti, ma anche le relazioni sfilacciate, in particolare tra genitori e figlia, e pagina dopo pagina si iniziano a vedere i punti che le restaurano.
Quando Ecìla diventa psicoterapeuta, il lettore comprende presto che i veri impazienti non sono i suoi assistiti, ma gli occhi della protagonista che spintonano in cerca di una via di uscita. Questa infatti lavora con l’inconscio e sa bene che non potrà fuggire a lungo, e che l’unico modo per vivere la propria identità è quello di disobbedire, trovare la forza di sfilarsi la maschera. Dovrà togliersi il trucco e il vestito da Callas che talvolta indossa per riflettere l’immagine amata dal padre, e comprendere quale immagine ami di sé.
Questo è il più intimo dei romanzi di Christiana de Caldas Brito. Benché in tutti i suoi scritti vi sia sempre una componente psicologica, qui per la prima volta attinge alla sua esperienza diretta di analista. Mai come in quest'opera infatti l'autrice rivela la sua profonda conoscenza del mondo psichico, il misterioso significato di quello onirico, e ci guida con la semplicità che la caratterizza negli astrusi meandri della mente umana. È qui la forza di questo romanzo: se riesce a mostrarci in modo così efficace la potenza del dissidio della protagonista tra essere psicoterapeuta e sarta è perché lei per prima ha vissuto quello tra psicoterapia e scrittura, da cui ha imparato che solo disobbedendo si trova la propria voce.
Ecìla ascolta i suoi impazienti mentre sogna di creare abiti, esattamente come farebbe una terapeuta che li ascolta sognando di fare la scrittrice.
C’è una scena in cui il padre di Ecìla le regala una penna con il suo nome, come a dire: adesso tocca a te. Per un attimo, se chiudiamo gli occhi possiamo vedere Ecìla diventare Christiana, afferrare la penna, leggervi il proprio nome e sentirsi finalmente autorizzata a non ascoltare più i grovigli della psiche dei suoi pazienti, ma a mettere su carta quelli dei suoi personaggi e, in questo romanzo per la prima volta, i suoi.

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