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Francesco e la 'vita buona' che gli è negata - di Tiziana Pazzaglia

Francesco e la 'vita buona' che gli è negata - di Tiziana Pazzaglia

La mamma di Francesco racconta una storia di opportunità negate per impreparazione, disorganizzazione e sostanziale indifferenza

Lunedi, 20/01/2020 - Scrivere sul “mentre, dopo di noi” significa affrontare le innumerevoli problematiche, angosce, paure, incertezze che sono presenti nella mia mente e con cui convivo da quando mio figlio Francesco, che ora ha ventidue anni, aveva solo due mesi ed è finito in terapia intensiva per delle crisi epilettiche che, non riconosciute come tali dai medici, erano divenute subentranti. La mia storia è oltretutto particolare, perché per quindici anni, insieme a mio marito, abbiamo pensato solo alla riabilitazione di Francesco, affrontandola senza ricercare nessun ausilio operativo dalla struttura pubblica, pensando a fare privatamente tutto ciò che ci suggerivano i vari medici consultati, per consentirgli di avere uno sviluppo adeguato alle sue potenzialità: logopedia, riabilitazione motoria e cognitiva, psicoterapia.
Francesco, infatti, fino all’età di quindici anni è stato curato farmacologicamente per l’epilessia e per quello che è stato indicato, prima, come un ritardo del linguaggio, poi come un disturbo del linguaggio, quindi come una disprassia verbale e motoria. Ma la sua situazione si è modificata con l’adolescenza e si evoluta negativamente: l’epilessia è scomparsa, ma anche il linguaggio, prima presente, magari poco comprensibile per l’articolazione, è cessato, sono subentrati comportamenti di una rilevante aggressività in famiglia connessi a crisi di rabbia, gesti inconsulti, incapacità di controllo delle funzioni fisiologiche, fenomeni che hanno richiesto l’intervento del neuropsichiatra e la sua nuova condizione è stata ricondotta all’autismo.
Da allora siamo entrati in un nuovo mondo, che mi appare privo di un orizzonte di soluzione.
Ritengo che la situazione dei ragazzi, ormai divenuti giovani adulti come mio figlio, sia la peggiore: nella vigente normativa essi sono abbandonati alle loro famiglie, al massimo possono “godere” delle limitate ore dell’assistenza domiciliare (spesso non adeguatamente qualificata). Fino alla maggiore età, soprattutto nell’ultimo decennio, sono diventati meritevoli di attenzione: si sono moltiplicate, infatti, le iniziative per la diagnosi precoce di tale patologia, forse nell’ottica di una sua futura scomparsa con una crescita “ guidata” e , quindi, di un’illusoria guarigione; poi spariscono, non sono più oggetto di considerazione.
Mi pare, inoltre, che in tale ambito le competenze diagnostiche e riabilitative, per quello che ho potuto constatare, siano ancora scarse, così come sono convinta che mio figlio, in un ambiente diverso da quello in cui attualmente vive (tre giorni in un centro diurno, due ore di laboratorio musicale, lezioni individuali di batteria e chitarra, due volte a settimana in palestra) potrebbe sviluppare molte altre potenzialità che ha.
Penso che sarebbe giusto anche per lui diventare autonomo, ma tutto ciò che appartiene alla sfera del mondo degli adulti non lo può fare: non potrà mai avere una vita sentimentale conforme alle sue aspettative (rimpiange quasi ossessivamente le vecchie compagne del liceo, una in particolare di cui era innamorato), non potrà mai svolgere un lavoro frutto di una sua libera scelta, né guidare un motorino, una macchina, andare in bicicletta.
Non so quali siano le cause della sua condizione, che gli comporta la necessità di assumere farmaci che spesso non bastano per controllare un’aggressività che si può scatenare all’improvviso, che è sempre devastante per chi vive con lui e per lui; come del resto non lo sanno i medici. So però che non credo che, per ora, sia felice di ciò che è, perché ha una buona comprensione del mondo che lo circonda e vive la frustrazione della sua inadeguatezza, fattore che ha un ruolo rilevante nella sua aggressività e che contribuisce a peggiorare la sua situazione.
Da piccolo, nel periodo delle scuole elementari, diceva che da grande voleva diventare un avvocato come suo padre, prendeva i suoi libri e si metteva a “lavorare” come il papà , al quale era, ed è, molto legato (si capiscono guardandosi); allora parlava, male, ma si faceva capire. Mi ricordo che io gli rispondevo: “La vita dell’avvocato non è bella, si è sempre affannati, sempre impegnati a studiare, a ricercare la soluzione dei problemi”, ma lui non mi credeva. A quell’epoca il suo pediatra, di fronte alle nostre preoccupazioni per il suo futuro, quando ci sembrava che non facesse i progressi auspicati, ci disse: “Magari non farà l’avvocato, ma potrà fare altre attività dove non serve un brillante eloquio”.
Oggi so che si sbagliava, perché Francesco non potrà fare alcuna attività, perché non gli piace un lavoro manuale, è cresciuto, per sua sfortuna, in un ambiente pieno di libri, con una mamma insegnante, sempre presa dalle lezioni da preparare, i compiti da correggere e il lavoro manuale, purtroppo, non ha fatto parte del suo mondo e, almeno finora, gli appare distante e insoddisfacente.
Nel periodo della scuola secondaria la sua situazione psicologica si è aggravata, è stato ricoverato in ospedale per ulteriori accertamenti, senza esito, ha smesso di leggere, scrivere, usare il computer, ha dovuto assumere dosi molto elevate di Tavor, la sua vita sociale è stata ulteriormente compromessa, la nostra vita familiare è stata sconvolta, fin quando negli ultimi tre anni di corso le cose sono migliorate: ha recuperato le abilità scomparse, ha potuto frequentare con assiduità, fino ad arrivare a trascorrere serenamente e con profitto quattro ore a scuola ogni mattina, sicché avevamo pensato di potergli far frequentare un ulteriore anno la scuola, ma la referente del sostegno ci ha detto che ciò avrebbe costituito “un danno erariale”. Così, naturalmente, i suoi apprendimenti non sono stati conformi per poter conseguire un diploma regolare e con la sola certificazione con il PEI, non può certo continuare un percorso formativo ulteriore.
A suo modo si è sempre impegnato ed ha sempre amato le materie umanistiche, la storia, la geografia, la musica, l’arte, la filosofia, persino il latino; durante i primi due anni delle scuole medie, quando frequentava regolarmente, con poche ore di sostegno e senza nessun assistente per l’autonomia, voleva fare tutti i compiti della classe, era orgoglioso di far vedere gli esercizi ai professori. Saliva autonomamente le scale dell’edificio, portandosi da casa il suo computer, perché ancora l’istituto non ne aveva a disposizione in classe uno per lui. L’istituzione scolastica non era però molto adeguata alle sue esigenze (la difficoltà del linguaggio aveva acuito la distanza dagli altri, e fuori casa si esprimeva molto poco). Una volta, il primo giorno di scuola in prima media, una docente, mentre faceva l’appello, poiché Francesco non le rispondeva, disse: “Si capisce perché hai il sostegno!” (me lo raccontarono i suoi nuovi compagni, visto che non eravamo riusciti neppure ad avere la continuità con i compagni della scuola elementare!). Non ci è stato mai possibile fare la logopedia a scuola, né far intervenire un educatore per agevolare il suo inserimento, mentre questo sarebbe stato molto importante negli anni della scuola primaria.
Per quest’articolo tornano pensieri in libertà a lungo repressi. Repressione è la parola che mi è servita di più: non aver paura delle crisi epilettiche, non fare caso alle sue opposizioni, non dispiacersi per la sua apparente indifferenza alle tue reazioni, non ti preoccupare per l’opinione degli altri, non pensare a cosa farà da grande, tutto questo perché ti devi occupare del presente, cercare i medici migliori, la riabilitazione più efficace, curare le innumerevoli malattie, non chiedere permessi al lavoro, altrimenti gli altri dicono, come a volte hanno detto: “Beata te che hai la 104”.
Contemporaneamente cercare di capire quali medici seguire, di chi fidarci, in chi credere, su quali basi? Francesco a 19 anni, forse sollecitato dai discorsi dei suoi compagni di classe, scriveva di voler andare all’Università, di volere la macchina, un figlio. Come fare di fronte a tutto ciò? Cosa fare?
Credo che il problema della disabilità andrebbe rivisto: non come fare a rendere i disabili eguali agli altri, ma come riuscire a far vivere loro una “vita buona”. Qualcuno mi ha chiesto: “Ma Francesco è consapevole della sua situazione?”. Cosa significa? Come può acquisire tale consapevolezza? Forse, ora, nel centro diurno la sta acquisendo, aumentando la sua frustrazione (evidente dalla sua espressione triste, dal ripresentarsi, in casa, e solo in casa, delle passate crisi aggressive). Francesco, probabilmente, è consapevole di non poter fare o avere quello che desidererebbe, il suo destino odierno è quello di un adulto bambino, deve essere accudito, non può essere lasciato solo, non può uscire da solo. Quindi per lui è necessaria una protezione, come può sviluppare le autonomie?
Penso che ci dovrebbero essere dei laboratori integrati, che possano consentire ai ragazzi come Francesco di continuare a sviluppare le proprie capacità, dei luoghi di incontro per la socialità. Per questo auspico la realizzazione di nuove iniziative legislative; le leggi, infatti, sono importanti anche se non potranno mai rispondere alle necessità delle famiglie che si trovano nella nostra situazione, finché la società non cambierà. Non possono fare tutto le leggi, occorrerebbe il contributo di tutte le persone, dovrebbero nascere associazioni di volontari, occorrerebbero risorse per le strutture e per la formazione degli operatori, centri di ascolto e di supporto, operatori motivati, studiosi capaci.
Soprattutto, si dovrebbe abbattere la burocrazia che in questo momento costituisce una barriera quasi insuperabile e che non risponde ai problemi dei cittadini. Personalmente, pur consapevole di andare contro l’opinione comune, ritengo che tutto ciò si sia aggravato ulteriormente per un uso distorto della tecnologia, vista quasi come dotata di poteri salvifici. Abbiamo sostituito le griglie, i modelli, i grafici e le slides alla passione, alla competenza, all’apertura verso l’altro, all’ascolto dell’altro e al suo riconoscimento come essere umano, capace di emozioni e sentimenti. Mi dispiace, non riesco a guardare con fiducia il futuro della società, tantomeno quello di mio figlio.

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