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Dottori anche in 'umanità'

Dottori anche in 'umanità'

Parliamo di Bioetica - Un segnale forte per i medici di domani: la cattedra in Umanità alla facoltà di Medicina di Milano

Battaglia Luisella Lunedi, 05/10/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2015

 Si è salutata con grande favore la notizia dell’istituzione di una cattedra di ‘Umanità’ nel dipartimento di oncologia della facoltà di Medicina a Milano. Un insegnamento, indubbiamente, carico di promesse, anche per il carattere fortemente evocativo di una parola che condensa in sé una straordinaria ricchezza di significati, ma che soprattutto, nel sottolineare la necessità di una formazione umanistica del medico, sembra nascere dalla presa di coscienza di una crisi della medicina scientifica. Una crisi che nasce, in realtà, dal suo stesso successo. La medicina scientifica ha compiuto infatti straordinari progressi: tecniche sempre più sofisticate consentono al malato di vedersi in tre dimensioni, il medico lo può curare a distanza grazie alla telemedicina, il chirurgo può operare senza toccare direttamente il malato. Progressi innegabili che celano tuttavia un pericolo, quello di vedere l’individuo ignorato nella sua singolarità dalle esigenze classificatorie. Siamo, in effetti, in presenza di un sistema sempre più burocratizzato che, ad esempio, anziché attribuire una valenza positiva al tempo trascorso con il paziente, considerandolo un investimento ai fini della stessa terapia, lo associa al concetto di perdita.



Che resta allora della relazione originaria tra curante e curato, di quel colloquio descritto fin dall’antichità da Ippocrate e dai suoi discepoli dell’isola di Kos? Qual è il posto del malato nella malattia, in una medicina sempre più spinta verso l’universalizzazione e chiamata a divenire una scienza dell’oggetto umano? In Nascita della clinica Michel Foucault ha tratteggiato magistralmente il cammino compiuto dalla medicina moderna, concentrandosi sul momento - la rivoluzione francese - in cui la creazione dell’ospedale, inteso come - “cittadella fortificata della salute” -, alimenta l’ambizioso progetto di una medicina come scienza esatta, attraverso l’oggettivazione della malattia e del malato. Al prezzo, tuttavia, di “sradicare” il soggetto, la persona, ignorando la molteplicità degli aspetti - biologici, psicologici, sociali - che ineriscono al problema della salute.



La ricostruzione etimologica di alcuni termini chiave potrebbe qui rivelarsi particolarmente utile. Medicus richiama il verbo latino mederi che significa “prendersi cura”, ma anche la parola greca therapeia ha tale significato: la sua radice Dher vuol dire “portare”, “prestare attenzione”. Il terapeuta è dunque “colui che sostiene”. È quanto ci ricorda un grande psicoterapeuta, James Hillman, secondo il quale il medico che passeggia “lungo le sale bianche dell’ospedale, con graziose nozioni della sofferenza, della malattia e della morte”, dovrebbe ritrovare la strada verso la visione più antica e integrata della sua vocazione, specie in quelle situazioni difficili della medicina moderna - superspecializzazioni, tariffe, amministrazione ospedaliera - che mostrano come l’aspetto umano sia caduto nell’ombra. È la stessa predilezione per la patologia scientifica ad allontanarlo dalla comprensione della sofferenza in favore della spiegazione della malattia: la sua attenzione è spostata dal soggetto all’oggetto, da colui che è disturbato al disturbo e alla sua causa. Ma, soprattutto, diventa immemore della sua stessa vulnerabilità: “I medici - rileva Hillman - sono notoriamente cattivi pazienti forse perché hanno perduto la capacità di essere feriti”.



Oggi, dinanzi ai complessi problemi della medicina ospedaliera, è davvero prefigurabile una medicina umanistica in grado di tenere insieme capacità tecniche e carattere morale? Ma, soprattutto, la cultura medica è preparata a questo rinnovamento, insieme politico e culturale? I segnali non sono certo incoraggianti: basti pensare agli attuali test di accesso alle facoltà di medicina, che privilegiano le competenze scientifiche e ignorano sistematicamente le questioni filosofiche ed etiche, di importanza fondamentale per la formazione umanistica del medico. Perché, allora, non cominciare proprio da qui, dando un segnale forte in direzione della confluenza dei diversi saperi dell’uomo e inaugurando così quel nuovo percorso per i dottori di domani che l’insegnamento di ‘umanità’ si propone?



La creazione del nuovo Dipartimento di Oncologia della Statale segna comunque una tappa importante in quel processo di umanizzazione della medicina che ponga finalmente al centro del percorso di cura la persona. Negli ultimi anni, infatti, si è provato a dare una forma originale all’insegnamento della medicina iniziando un percorso sperimentale di introduzione precoce degli studenti, nei primi giorni di frequenza, al mondo della persona malata, seguendo gli infermieri nelle attività quotidiane di accudimento. In una serie di incontri di riflessione in piccoli gruppi con una docente di Pedagogia medica, gli studenti rielaborano i profondi sentimenti e le emozioni che si originano dal prendere parte al rapporto di cura. Al termine del corso, una serie di incontri organizzati dagli stessi studenti con scrittori, filosofi, medici, offre poi l’opportunità di riconsiderare i vissuti personali in un contesto ancora più ampio. Un progetto sperimentale, questo, nato dalla consapevolezza che i corsi di Medicina tradizionale, soprattutto nei primi anni, favoriscono una concezione distorta e riduttiva del tipo di medico che la società richiede: la concezione di un medico molto centrato sugli aspetti preclinici e le scienze di base, ma poco interessato alle dimensioni culturali, relazionali e umanistiche di importanza cruciale in questa professione.

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