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Cosa C’è dopo il mare, libro di Patrizia Fiocchetti

Cosa C’è dopo il mare, libro di Patrizia Fiocchetti

"...dietro la narrazione ci sono le parole, le voci, gli sguardi, i vissuti di persone fatte di carne incontrate dall’autrice nella presenza dei corpi..."

Giovedi, 08/09/2022 -

Cosa C’è dopo il mare, libro di Patrizia Fiocchetti pubblicato nel 2021 dalla casa editrice LoRusso tratta con delicatezza e con forza la condizione della donna nei Paesi in guerra e della violazione dei diritti all’infanzia. Accostarsi alla lettura di questo romanzo viene fatto sapendo che dietro la narrazione ci sono le parole, le voci, gli sguardi, i vissuti di persone fatte di carne incontrate dall’autrice nella presenza dei corpi. L’intreccio narrativo diventa espediente per denunciare le condizioni disumane in cui vivono gli sfollati, sapendo anche, che non sono trattati eventi accaduti in un passato lontano, ma che vengono toccati questioni nevralgiche della nostra contemporaneità, sconfinando gli sfollati ai margini dell’Europa e/o gettando nell’oblio l’orrore.

Con un colpo ad effetto illusione, l’intro indossa delle vesti poetiche. Come la stessa autrice ci rivela in una nota finale, l’incipit del racconto è un sogno fatto dall’autrice che le regala un’immagine, un promontorio e due bambini; immagine onirica da cui prende forma l’intero racconto. Il sogno viene ripreso con il penultimo capitolo creando un punto di ricongiungimento con l’intro; creando un effetto di ritorno infernale. Con lo scorrere delle pagine la scrittrice ci accompagna nei luoghi della de-umanizzazione. 

Il romanzo segue precise coordinate che danno quella scansione temporale dentro cui si muovono tutti i personaggi principali del libro: C’è un Tempo 1 in cui si condensano le ragioni, le motivazioni dello spostamento dal proprio Paese natio; poi avviene il Tempo della Transizione fatto di nascondigli, coperture, montagne, brevi incontri durante l’evasione e di gente che rimane indietro. Infine un terzo tempo dove sembra scivolare nel vuoto lo scorrere del tempo e dove tutto si ferma all’interno del campo profughi, in un’isola Greca, che diventa per gli esseri umani il luogo della sospensione e del senza tempo. Luogo alle periferie dell’Europa dove vengono confinate le persone. Giunti in quest’ultimo tempo si è travolti dall’impressione che l’unico e macro protagonista del racconto sia proprio il campo profughi con i suoi significanti sempre ricorrenti: ritorno a codici primitivi – fila per i bagni – fila per i pasti – odore di urine – ricerca di cibo – corpi abusati – corpi senza volti. Significanti che alienano la gente all’invisibilità, trasformando le persone in una serie senza volti e dove diventa difficile estrapolare una differenziazione nella moltitudine di voci. Questo aspetto è testimoniato da Neda, uno dei volti che riusciamo a riconoscere nel libro e in un passaggio dirà: “In quali orrori gli abbiamo permesso di trasformarci”. La stessa Neda dirà a testimonianza, come le estreme privazioni in quei luoghi riducono gli uomini in oggetto scarto: “Ignorano i nostri bisogni e dimenticano che siamo esseri umani; ogni alba quando mi alzo ricordo a me stessa e a Sara che siamo persone, una donna e una bambina, così da non arrendersi alla disperazione”. Ad un punto del romanzo il lettore sembra superare i confini del campo, confini che separano la vita civile da questi lager e si è presi talmente dal realismo dei fatti, dalla presentificazione degli odori, che appare al lettore di trovarsi presente nelle scene, come spettatore inerme, passivizzato e disarmato.

Il racconto viene inaugurato da un’epigrafe. Dopo aver letto il libro ti accorgi che in qualche modo quell’epigrafe iniziale “Io sono ciò che sono in virtù di ciò che siamo tutti”, condensa la questione al cuore del racconto ed è possibile rintracciare un’associazione con una celebre frase di Jacques Lacan tratta da gli “Scritti”: “ (..) La condizione del soggetto dipende da ciò che si svolge nell’Altro (1). Se partiamo da questo postulato, risulta evidente che vanno rintracciati nel luogo dell’Altro i segni con cui interpretare gli effetti soggettivi denunciati nel romanzo.

Le storie che incontriamo mettono in luce come improvvisamente i bambini smettono di parlare e avviene l’indicibile. Un altro tema/denuncia sono le bambine che vengono date in sposa. Come anche il tema frequente dello stupro. Come tutto venga protetto da codici primitivi interni e, come presi dal senso di spietata sopravvivenza, questi codici incalzano. In parallelo all’orrore nel romanzo avviene un fatto straordinario: attraverso tre donne, Nilufar, Leila e Ada, l’autrice estrapola dalla serialità, dall’invisibilità di quei luoghi, i volti, le voci, le parole e riesce ad estrarre l’umano: emergono le vicende di compagni di viaggio, l’ascolto di traumi. Avviene un recupero della dignità umana. Nello specifico questo avviene attraverso le lettere di Nilufar, il diario di Leila e i frammenti di vissuti raccolti da Ada. Questo tentativo di umanizzazione è portato all’estremo quando Ada rivolgendosi ai giornalisti che vogliono intervistarla, risponde “È con loro che dovete parlare”, riferendosi alle donne che lasciava nel campo profughi e a cui rivolgeva lo sguardo. Queste tre donne animano la lettura e reintroducono la dimensione del tempo e il dinamismo. La vita di queste tre donne si intrecciano con le storie di altre donne e si rintraccia nella loro sorellanza il seme che incoraggia alla lotta. Sono tre donne appartenenti a tre generazioni e a Paesi differenti. Attraverso le loro esperienze vengono toccati diversi aspetti rispetto la condizione socio-politica della donna: abbiamo Nilufar giovane studentessa iraniana di 27 anni che a partire da un atto verrà dichiarata ribelle per la sovversione del sistema governativo. L’atto di ribellione sarà un gesto irreversibile da cui non si potrà tornare indietro; atto che le provoca in un primo momento smarrimento e in seguito un conflitto di identità. Leila è una donna e combattente di 37 anni siriana; incontra l’amore ed è subito costretta a smarrirlo. Un amore che le lascia in dote un coltello, arma che continua a impugnare da combattente. La vita la costringe a rinunciare all’amore, al desiderio di avere figli, e di assumersi la responsabilità di sopravvivere. All’orizzonte vede la possibilità di raccontare all’occidente i soprusi. Trova nell’amore per Faid e per sua madre-terra il coraggio del distacco, la forza per partire e testimoniare. Ada è una donna italiana di 48 anni che cerca il suo posto nel mondo e non lo fa nella convenzione sociale, ma nei luoghi dove è impossibile aiutare o trattare la disperazione. Luoghi dove però è possibile ascoltare, accogliere e rispettare il dolore altrui introducendo la dimensione della dignità.

A queste donne si aggiunge Sara, giovane dodicenne alle prese con un corpo che cambia; anche con lei si fa forte il rifiuto della convenzione, della tradizione e del volere del padre. Il rifiuto di Sara rappresenta un “No” che tuona come un rigetto per lo stato immutabile delle cose e finirà per incarnare questo “No”.

Con le innumerevoli immagini ed eventi che ci dona l’autrice, invito tutti alla lettura.



1)  Lacan J., 1966 J. Scritti. Volume secondo, Biblioteca Einaudi, Torino 2002, pag. 545

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