Gli umani dipendono dall’organizzazione sociale in cui vivono e lavorano. L’emergenza che stiamo vivendo ci aiuta a comprenderlo. Intervista a Marianna Gensabella
Martedi, 26/05/2020 - La pandemia ci precipita in una percezione di noi stessi in relazione all’altro; una visione che non conoscevamo, o meglio, che avevamo occultato a noi stessi pensando alla sopraffazione come inevitabile modus operandi. Invece gli umani sono per definizione esseri sociali, dipendenti dal prossimo e dall’organizzazione sociale in cui vivono e lavorano. Il lockdown ci è stato imposto, e lo abbiamo accettiamo, in quanto è una forma di autotutela e al tempo stesso di protezione del nostro simile. È una circolarità insita nella comunità di appartenenza che richiede la reciproca cura, un continuo scambio alla pari di cui nessuno può fare a meno. Man mano che i mesi di imposizione del distanziamento sociale scorrono, vediamo quanto siano strettamente connesse le responsabilità individuali e collettive e quanto gli egoismi siano inutili e dannosi. Eppure il seme della discordia ha ripreso a germogliare e quello che era un sentimento di comunità delle prime settimane - pensiamo ai cori sui balconi e allo slogan ‘andrà tutto bene’ - sembra affievolirsi sempre più. In questa conversazione con Marianna Gensabella, professoressa di Filosofia morale dell’Università di Messina, vogliamo soffermarci sul (possibile?) impatto positivo nella società del virus, proprio a partire dalla constatazione che ‘nessuno si salva da solo’, come è stato spesso ripetuto. Questa conversazione è l’ultima del ciclo tenuto nell’ambito della collaborazione tra NOIDONNE e l’Istituto Italiano di Bioetica.
“La pandemia che stiamo vivendo ci mette di fronte ad una verità che costantemente rimuoviamo: la vulnerabilità che ci accomuna tutti, a partire dai più potenti fino ai più fragili. È una condizione che riguarda tutti i viventi e che i poeti greci ricordavano quando, parlando degli uomini, li indicavano come ‘i mortali’. Tutto ciò che vive, essendo destinato a finire, è esposto ai danni, alle ferite che possono in ogni istante condurlo alla morte. A distinguere la condizione umana non è solo, come scriveva Hegel, la consapevolezza di dover morire (tra l’altro non è detto che sia una nostra esclusiva: alcuni studi di etologia parlano di un’angoscia di morte di alcuni mammiferi), ma anche la condivisione della cura della vulnerabilità. Ognuno di noi è più o meno vulnerabile e, al tempo stesso, ognuno ha capacità diverse di aver cura di sé, di proteggere la sua vita. Ma nessuno ce la farebbe senza l’aiuto degli altri, se non potesse condividere con gli altri il peso della vulnerabilità e la forza della capacità di cura. È la grande lezione che Heidegger trae dall’antico mito di Cura narrato da Iginio: siamo destinati a Cura per tutto il tempo della nostra vita, il che vuole dire che dobbiamo prenderci cura delle cose per aver cura gli uni degli altri. Questo vincolo reciproco della cura è l’altra verità che rimuoviamo quando ci pensiamo come individui, indipendenti, capaci di azioni che non dipendano da altri, assolutamente autonomi, capaci di autodeterminarci a prescindere dal contesto relazionale in cui viviamo.
La bioetica della cura che trae inizio da uno dei padri fondatori della bioetica, Warren Thomas Reich, muove dall’intento di rimuovere la rimozione, mettendo al centro di ogni dibattito il paradigma di cura. L’Istituto Italiano di Bioetica, che Luisella Battaglia ha fondato, e di cui ricorre quest’anno il venticinquesimo, estende questo paradigma dalle relazioni tra gli esseri umani a tutti i viventi, dilatando il cerchio della nostra responsabilità: dalla salute individuale a quella collettiva, a quella globale, che comprende la salute degli animali e dell’intero ecosistema. Una “salute globale” o “circolare”, dal momento che tutto si tiene e tutto ritorna.
È la doppia lezione di Covid-19, questo virus insidioso, sconosciuto, imprevedibile nelle sue mosse: con le sue origini dal mondo animale ci ricorda il legame tra tutti i viventi; con il suo essere estremamente contagioso ci costringe a farci carico del vincolo tra la salute di ciascuno e la salute di tutti.
La seconda lezione mette in luce ciò che non vedevamo, e che forse smetteremo di vedere quando scomparirà: lo stretto legame di interdipendenza che accompagna la nostra vulnerabilità e, insieme, la nostra capacità di cura. La consapevolezza di questo legame ridimensiona i miti dell’individualismo: l’indipendenza diviene interdipendenza, l’autonomia mostra il suo vero volto, prendendo coscienza del suo darsi nelle relazioni, come autonomia relazionale. Da qui la necessità di non considerarci individui, ognuno per sé, ma persone, aperte alla relazione con gli altri, e di ripensare interdipendenza ed autonomia relazionale alla luce del principio di solidarietà. È il principio etico che è mosso da quel “sentimento di comunità” di cui parli tu e che ritrai nella bella immagine dei canti insieme dal bacone: nient’altro è la solidarietà che il principio che muove dal sentirsi parte di un tutto.
È bastata la fine dell’emergenza per iniziare a corrodere quelle immagini, indebolire quel sentimento così prezioso perché il principio agisca nelle nostre vite? Sì, forse sì. Ma chiediamoci perché. La paura del pericolo comune consolida l’idea di essere comunità, o gruppo, come diceva Sartre: bisogna farvi fronte insieme. Le differenze tra individui sembrano svanire per lasciare il posto alla comunanza, all’essere tutti in pericolo e tutti tesi a fronteggiarlo. Le pagine sartriane della Critica della ragione dialettica sul gruppo in fusione mostrano in modo chiaro questa dinamica che la storia più volte rende palese.
Se il pericolo si allontana e la paura si indebolisce, le differenze riemergono e separano. Differenze che c’erano da prima, quei gradi diversi di vulnerabilità che ognuno di noi sperimenta nelle diverse fasi della vita, nelle diverse condizioni di salute, economiche o sociali che il destino gli assegna. Differenze che l’epidemia e le misure prese per contenerla nell’immediato, apparentemente nascondono (tutti in pericolo, tutti chiusi in casa, tutti isolati), ma in realtà, soprattutto nel lungo periodo, rafforzano. Non è lo stesso il lockdown del ricco con villa e giardino e del meno ricco in un appartamento di città, o del povero in due stanze senza balcone, o del senza tetto che non sa dove chiudersi. Non è lo stesso l’isolamento per il giovane e per l’anziano, per il sano e per il malato, per chi ha tutte le abilità e per chi ne ha persa qualcuna. E ancora le misure prese creano nuove differenze, fanno emergere nuove povertà anche tra coloro che poveri non erano. Ci vuole poco allora a comprendere che la solidarietà sia messa alla prova e che ciò che le dava forza, quel sentimento di comunità, di cui dicevi, ceda di fronte al “ri-sentimento”: un sentimento che torna indietro dall’apertura all’altro al mio io, ferito, in difficoltà più dell’altro. Le misure prese “perché nessuno resti indietro”, come ci dicono insistentemente i nostri governanti, dovrebbero fermare il ri-sentimento, impedire il suo trasformarsi in rabbia sociale, e incentivare il riemergere del senso di comunità, di coappartenenza. Sappiamo però quanto è difficile: di mezzo c’è un disagio crescente, immediato di tanti e una mancanza di fiducia che a quel disagio si possa, da parte della comunità, rappresentata dallo Stato, dare rimedio. Forse ciò che in questo momento emerge, e su cui dovremmo tutti lavorare, è proprio la difficoltà di recuperare la fiducia nello Stato e in chi lo rappresenta".
Ti pare possibile che una società cresciuta sulle disuguaglianze e attraversata da grandi egoismi possa comprendere che l’unica sua salvezza sarebbe riconsiderare l’importanza della reciprocità e del rispetto dell’altro?
Mi sembra estremamente difficile, ma al tempo stesso necessario. Abbiamo le prove oggi che da soli non si va da nessuna parte, che l’individualismo è un’illusione pericolosa e l’egoismo che ne deriva è il cancro che non può che uccidere la nostra società. La pandemia che stiamo attraversando ci fa vedere, come in uno specchio ingrandito, molti dinamismi della nostra società: fa emergere e per certi versi aumenta le diseguaglianze inique, quelle che non riparano differenze, ma le accrescono. Così facendo ci impone, in modo pressante, ineludibile, il dovere di darvi, il più possibile rimedio.
Nelle prime settimane era netta la percezione di una volontà diffusa di vivere la pandemia come opportunità di cambiamento, col passare del tempo questo flusso si è molto affievolito. Concordi oppure hai altre sensazioni? Ho la sensazione che ci sia da parte di tutti l’esigenza di riflettere su ciò che ci è accaduto. Non è stata un’esperienza da niente. Abbiamo rinunciato tutti a tante cose: dalle piccole abitudini alle nostre libertà fondamentali, alle relazioni più care. E non eravamo abituati a rinunciare. Abbiamo avuto tutti molta paura: e non accadeva da tanto. C’è in noi la volontà di riprendere in mano la nostra vita e, forse, anche, la voglia di dimenticare, di lasciarci alle spalle quello che abbiamo vissuto. Ma c’è ancora paura, c’è soprattutto molta incertezza. E nell’incertezza, se non si cambia, per lo meno si pensa. Per quanto sembri assurdo e in qualche modo irrispettoso nei confronti della tragica scomparsa di tanti esseri umani, l’emergenza sanitaria e sociale che stiamo attraversando come tutte le crisi può anche essere un’opportunità, un nuovo inizio.
Insomma secondo te questo virus e, soprattutto, le conseguenze negative sul piano economico, possono aiutare a migliorare la società oppure saranno un fattore di ulteriore deterioramento delle relazioni? Forse perché sono un’inguaribile ottimista, penso che questa emergenza che abbiamo attraversato, anzi che stiamo attraversando (attenzione! ancora non ne siamo usciti!), ci renderà migliori. E per un motivo molto semplice: ha messo in luce verità scomode che conoscevamo, e facevamo finta di non sapere, come la nostra vulnerabilità, la nostra interdipendenza tra esseri umani e il nostro legame con tutti gli esseri viventi, il nostro essere sospesi in un mare di incertezze. Non è un caso che è emerso in questo periodo un’esigenza profonda di spiritualità: a Chiese chiuse non siamo forse mai stati tanto religiosi, tanto attenti, tutti, alle parole di Papa Francesco. E il suo messaggio, profondamente cristiano, è rivolto a tutti, credenti e non credenti, ed è molto semplice: “siamo tutti nella stessa barca”. Non credo che sarà facile dimenticarlo, anche se la tentazione di riprendere la corsa e rimuovere tutto ci sarà e sarà forte. Ma sarebbe perdere l’opportunità che la crisi intesa come nuovo inizio ci offre, un’opportunità che è costata lacrime e sangue, che ha dilaniato vite, famiglie, imprese, risorse, e che tuttavia può essere letta come tale, se sapremo coglierla: se sapremo alla luce di quello che abbiamo vissuto, guardare alle tante lacune che sono emerse nel nostro vivere sociale, nel nostro sistema sanitario, nella nostra tutela dell’ambiente, e da lì ri-cominciare. Come scrive Hanna Arendt “gli uomini anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per cominciare”. La nostra forza come esseri umani è essere capaci dopo ogni crisi di ri-cominciare, cercando per quanto possibile di migliorare il nostro modo di abitare insieme il mondo.
Lascia un Commento