Per la brasiliana Christiana de Caldas Brito è il secondo romanzo pubblicato in Italia. Il grande protagonista è il mare e intorno a esso ruotano strane storie
Lunedi, 25/06/2018 - “Fu Bożena ad aprire la porta”. Con questo perfetto incipit Christiana de Caldas Brito ci apre la porta del suo romanzo, scagliandoci immediatamente nel cuore della narrazione. Anche qui, come in Cinquecento temporali, è l’acqua la protagonista, ma la pioggia del romanzo precedente si è riversata in mare: un mare ammaliante e angosciante, spaventoso e avvenente, che assedia e al tempo stesso culla tutti coloro che si muovano nel cerchio magico disegnato dalle sue acque: “In Brasile siamo oceano, fiumi, pioggia, laghi, cascate. Siamo sudore e lacrime”.
In questo lavoro più che mai decaldasiano, la dimensione onirica si intreccia armoniosamente con quella reale e l’autrice ci regala una trama sorprendente, in cui sembra sporgersi un po’ più in là, accogliendo un aspetto che non si trovava, almeno non così apertamente, nei suoi lavori precedenti: la sensualità. Questa avviluppa personaggi e intrecci, persino il mare a un tratto diventa estremamente sensuale, sembra quasi di avvertirne le mani che carezzano e gli spruzzi che solleticano, nella sua “risata liquida”.
Colpo di mare è una storia ricca di inaspettate deviazioni e insperati ritorni, dove il caso fa incontrare due donne che si rivelano reciprocamente necessarie: l’una dovrà scrivere la storia dell’altra. Ci si ritrova tuttavia a domandarsi se davvero il caso esista, e a mano a mano che una racconta e l’altra scrive, si fa sottilissimo il confine tra le due, tanto che la scrittura dell’una si diluisce nelle parole dell’altra, come in un acquarello confuso. Attraverso un sapiente gioco di rivelazioni e colpi di scena, si intuisce che dietro ogni personaggio c’è una storia da svelare e che ogni racconto ne nasconde un altro che si paleserà in modo imprevedibile. Tutt’intorno si muovono donne forti e uomini codardi sullo sfondo di due Paesi – l’Italia e il Brasile – mai così vicini. Passato e presente si coniugano tra incontri di amore e scelte rigide, tra fughe improvvise e leggende, rimbalzando da dimore povere ad abitazioni agiate, dove l’insolito è bollato come follia.
È un romanzo che sottolinea doppiamente l’importanza della parola, distinguendo sin dall’inizio l’abisso che divide quella scritta da quella orale: “Le parole in un racconto orale si liberano come farfalle che svolazzano. (…) Con la scrittura, invece, le parole diventano farfalle senza vita, attaccate a una bacheca di vetro”. E ancora: “Le parole di suo padre erano rassicuranti, quelle della madre erano parole-tuoni che guastavano l’estate, parole-frutti piene di vermi, parole-scarpe già strette prima di essere usate”.
Il secondo protagonista infatti è il racconto stesso, con la sua indicibile importanza, e a tratti l’autrice sembra suggerire affettuosamente i trucchi del mestiere alla donna che dovrà scrivere: “Flora si era offerta di raccontarmi la sua infanzia. Ma per conoscere l’infanzia di una persona non c’è bisogno di tornare indietro nel tempo. Basta osservare le movenze del suo corpo, sentire la sua voce, vedere il suo sorriso. L’infanzia continua nello sguardo degli adulti, nel modo in cui stringono le mani degli altri, nei gesti impensati, nelle risate e nei dolori”.
Qui e là l’autrice interviene seminando alcune delle sue migliori perle: “Non siamo noi a decidere quando andare in un posto, sono i posti a chiamarci. (…) I luoghi non sono impazienti come noi. Sanno aspettare”. In alcune pagine poi c regala piccole meraviglie con la lievità che la contraddistingue: “Ho imparato che gli incontri d’amore non avvengono quando vogliamo noi. L’amore è come un cartone di latte che prendiamo al bar. Può capitare che solo a casa ci rendiamo conto che è passata la scadenza. Purtroppo non esistono amori a lunga conservazione”.
Ma è anche un romanzo sulla fragilità della famiglia in cui si cresce e su quanto questa possa diventare la più pericolosa delle trappole, la più crudele delle fatalità: “Una cosa, comunque, era certa: nessuno è libero di scegliere la propria famiglia. Certi fatti dipendono dal destino. Uno può impedire che tali fatti contino troppo, può scegliere gli amici, gli studi, i libri da leggere, il lavoro, i compagni di vita, non la famiglia”. E qui la famiglia è un animale arrogante che si erge a giudice, che non crede alle parole di sua figlia e che va convinta, utilizzando lo strumento più efficace: la scrittura. Un’arma poderosa per un compito tanto delicato, esiste del resto cosa più dilaniante del non essere creduti dalla propria famiglia? Qui la scrittura si mostra in tutta la sua potenza, come ultima possibilità di salvezza.
È davvero un dono ogni nuova pubblicazione di Christiana de Caldas Brito. Anche qui, si sorride e si piange, si scalpita e si tifa per i protagonisti. E si assapora la raffinatezza di una letteratura di gran qualità, con immagini di estrema efficacia: “Come l’umidità si impianta in una casa, così si impianta il malessere tra le persone”, o “(…) la vita di ognuno di noi è come un filo che scappa da una matassa e s’intreccia con altri fili. A volte, però, un filo si stacca”. Ed è proprio inseguendo il percorso di questi fili che si arriva senza fiato all’ultima pagina, imbattendoci in un finale su cui si resta dapprima a bocca aperta, fino a comprendere pian piano che siamo noi lettori a dover individuarne l’interpretazione stabilendo l’epilogo, il nostro. Ma non preoccupatevi, non tarderà ad arrivare: a libro chiuso, sentirete un sapore di sale, e una luce improvvisa vi investirà gli occhi e i pensieri, e sarà come sobbalzare. Come un colpo di mare.
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