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'A mano libera', il commento di Graziella Rivitti

'A mano libera', il commento di Graziella Rivitti

"La detenzione evidenzia l’emarginazione, le restrizioni personali, diviene esperienza potente aggravando ferite perennemente aperte..."

Lunedi, 29/01/2018 - Per leggere gli altri commenti vai a...
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Gennaio 2018. Da un progetto, tenuto nel carcere femminile di Rebibbia a Roma, nasce “A mano libera, donne tra prigioni e libertà”, un libro in cui le detenute si raccontano, mettendo a nudo i propri sentimenti, scrivendo di emozioni e libertà. “Il laboratorio nel carcere femminile di Rebibbia si tiene da 4 anni ed è un’iniziativa di volontariato che il periodico Noidonne e l’associazione Noidonne TrePuntoZero ha proposto (alla Direzione e alle detenute) come spazio libero di incontro tra donne dedicato alla ricerca condivisa dei possibili sguardi di genere sui fatti del giorno e sui temi di attualità. È un libro che racconta “voci potenti, raccontano di drammi ignoti. Eppure esprimono vitalità e riscatto le testimonianze delle donne detenute del carcere di Rebibbia di Roma” si incontrano, a distanza donne (detenute e no) e le prigioni reali o quelle che non lo sono uniscono limitando corpi e desideri; il tema della libertà e delle prigioni che, accomuna donne libere e detenute, indipendentemente dalla condizione della detenzione.
La detenzione evidenzia l’emarginazione, le restrizioni personali, diviene esperienza potente aggravando ferite perennemente aperte, non solo per la perdita di libertà, ma sul piano umano ed emotivo: si è obbligati a fare i conti con la solitudine, col distacco violento dal mondo degli affetti convivendo con l’infelicità propria e quella delle altre: unico contatto con il mondo esterno e con familiari è il colloquio, che diviene una parentesi, a giornate tutte uguali. È il dramma di chiunque è in carcere, per la donna assume risvolti strazianti per lo speciale legame che unisce una madre ai propri figli, una particolarità non da poco, che si scontra con l’inadeguatezza del sistema carcerario modellato sulle esigenze maschili. Le parole della direttrice, Ida Del Grosso, evidenziano quale maggiore causa dei reati femminili, spesso la dipendenza da una relazione affettiva violenta o comunque non paritaria. “il femminile è tanto più carico di emozioni e di emotività. intanto c’è la sofferenza fisica per il distacco dai figli. Anche gli uomini la soffrono, ma è diversa più gestibile, più razionale. Le donne vivono le situazioni con una emotività che deriva da una nostra caratteristica, un modo di essere.”
Il libro offre un racconto, corale, intessuto di sofferenze e speranze, intonato sulle note di una positiva presa di coscienza di sé e del valore come persone. Emergono nelle detenute maggiori problemi materiali e psicologici legati alla personalità, alle loro sensibilità più complesse, alla sofferenza per l’assenza di affettività, per la lontananza dai figli, dalla famiglia e dalla vita normale. Tendenzialmente le donne detenute hanno più sensi di colpa verso l’esterno e verso la famiglia che rimane fuori. È evidente che la detenzione per la donna è carica di una sofferenza diversa da quella maschile, una sofferenza legata all’essere donna, che si aggiunge poi a condizioni specifiche difficili da gestire.
La sintonia tra sconosciute e l’incontro con la storia delle conquiste delle donne può offrire qualche spunto di riflessione, qualche strumento utile a decodificare percorsi di vita difficili e dolorosi. Perché anche il carcere è un’istituzione costruita su un unico modello, quello maschile, che poco considera le diversità di genere. Il risultato è un coro femminile di “voci potenti che raccontano di drammi ignoti”, scrive Agnese Malatesta nella prefazione, testi che “esprimono vitalità e riscatto personale”. Il dentro e fuori degli incontri settimanali, il reciproco rispetto e il dialogo aperto disegna una linea libera che si erge sopra il muro del carcere che avvicina il comune sentire la vita.

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