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È facile dire Domenica - di Silvia Leuzzi

È facile dire Domenica - di Silvia Leuzzi

. . . sembra facile dire la parola Domenica, per quelli a cui queste lettere evocano una giornata di riposo, diversa da tutte le altre, di ricarica . . .

Domenica, 09/08/2020 - Già, sembra facile dire la parola Domenica, per quelli a cui queste lettere evocano una giornata di riposo, diversa da tutte le altre, di ricarica.

Eppure ci stanno persone come me, che hanno imparato a odiare questa giornata, così come le feste comandate e le vacanze di agosto. Fanno parte di un pacchetto precluso a chi è costretto a vivere con la diversità, con la fragilità della salute fisica e psichica.

Ora però non era nelle mie intenzioni armare un piagnisteo, che tanto sembra a chi queste cose non le vive, e bisogna anche capirlo. Pertanto proviamo a buttare il lettore nel mezzo di una scena tipo, tra pensieri e azioni, che spesso si rincorrono tra ansia e stanchezza.

All’inizio della storia, soprattutto per quanto riguarda la disabilità di un figlio, si costruiscono solidi castelli in aria, e non ho detto questo ossimoro per vanità letteraria, credetemi. Chi ha vissuto queste emozioni sconvolgenti mi capisce.

Ora partiamo dal presupposto che un figlio è sempre un regalo di Natale. Un dolce squisito a tutta prima che poi, spesso e volentieri, risulta indigeribile o comunque presenta un retrogusto acidulo molto fastidioso e persistente. Un figlio disabile ha per di più il fatto che, nonostante il nostro grande amore, non si presenta neppure come un dolce, pesante e con il retrogusto, ma spesso è una porzione di fiele che la vita casualmente dona ai più fortunati.

Non c’è predestinazione, solo un caso meschino che, per quelli che ne sapranno aggirare le spine, a tratti offrirà opportunità sconosciute, che sono sicuramente arricchenti.

Penso spesso che ne avrei fatto a meno, ma sono in ballo e non ho scelta.

Un figlio, anche il più bello, buono e caro, è un terremoto nella vita di coppia e in quella della madre. Un figlio che fin da subito presenta una patologia, spesso sconosciuta, nonostante i progressi della medicina, non è un terremoto ma una catastrofe nucleare.
Ci vogliono anni per bonificare l’anima e tornare a guardare il sole dalle finestre, ottuse dai castelli in aria e dai sogni irrealizzabili.
In questo interregno la mente, anche la più razionale, vacilla e se non è dotata di una dose di forte masochismo e piacere del martirio, è facile essere preda della paura e del vuoto.

Io sono una che ha dovuto fare i conti con una bambina interiore piuttosto capricciosa, che l’amore viscerale, quello che non ha parole giuste che lo descrivano, ha reso adulta tra lacrime e piedi invisibili sbattuti sul selciato incandescente della mia mente.

Perché vi racconto questo? Per parlarvi della mia paura, del mio senso di vuoto profondo e del terrore che suscitano le parole: Domenica, Natale, Pasqua e Ferragosto.
Sono parole che evocano la pace e per chi la parola pace non esiste, stride anche il silenzio delle prime ore del mattino del giorno festivo. Ore in cui, giustamente, chi può si lascia andare nelle braccia di Morfeo, senza quell’odioso rumore della sveglia.

Per molti di noi è diverso, la domenica è il giorno in cui tuo figlio si sveglia prima e siccome tu stai ancora dormendo, pensa bene di cantare, ridere e parlare a voce alta. Mentre che tu, accecata dalle luci accese, rincoglionita dal sonno, guardi l’ora, perché dalla finestra il cielo è ancora scuro, magari piove pure, se è inverno, lui di sotto ha già spalancato il frigo, perché ha fame e cerca il pane senza glutine, facendo di solito cadere qualcosa.
Senti il trambusto e ti precipiti di sotto, se ti dice bene, ride e a te scoppia la testa, nella quale rimbomba : Che cazzo ti ridi, io c’ho sonnoooo! Non lo dici però, perché quel riso ci mette un attimo a diventare pianto rabbioso, le cui conseguenze sono difficili da gestire.
Allora raccogli le forze e metti su la macchinetta del caffè. Sai che dovrai uscire per consentire al resto della famiglia di dormire, ma il dilemma è grande: dove andare?
Nel frattempo lui ti tempesta di domande: dove andiamo? Usciamo? Chi viene oggi? Chi viene a pranzo?
Con due cartoni animati e una bella colazione lo tengo buono un’oretta, per strada alle sette sotto l’acqua e no.
Faticava a diventare giorno, il sole era coperto da grasse nuvole grigie, che gettando litri d’acqua speravano di dimagrire e diventare simpatica nuvolaglia.
Vedendolo tranquillo, non vi nascondo che ho sperato si riaddormentasse un’oretta almeno, invece niente.
Ricordo che avevo la macchina nuova ed era da qualche tempo che avevo ricominciato ad ascoltare musica dei miei tempi goliardici, grazie a un mp3 mezzo scassato, regalato a mio figlio da mia nipote e poi arrivato a me.
In quel periodo ho macinato una quantità incredibile di chilometri, scarrozzando mio figlio ovunque.
La musica che ascoltavo con le cuffiette, rendeva più lieve la fatica. Avevo ripreso a scrivere poesie, racconti, fiabe e mai come in quel primo momento esplosivo, fantasticavo e prendevo idee.
Quella domenica grigia e piovosa decisi di recarmi a fare un giro al Lago di Bracciano. La strada in mezzo alle campagne, tra i boschi solitari, neanche un cane per strada, solamente la mia macchina con un soggetto strano alla guida e un altro che si agita di dietro. Che coppia!
Eravamo quasi arrivati ad Anguillara, quando mi scappava una tremenda pipì. Mio figlio era agitatissimo quel giorno, musica e fantasia a parte, aveva provato più di una volta a darmi un calcio, ma i poggiatesta, santi e benedetti, mi avevano protetto. Non era quindi il caso di entrare in un bar, oltretutto da sola.
Tra la musica e i suoi ululati, ora non ricordo che volesse, (forse era arrabbiato con la pioggia e ovviamente picchia me ),vidi un piccolo spiazzo con vista lago, che faceva al caso mio.
Fermo la macchina e sotto l’acqua mi accuccio tra le felci, che hanno un profumo così intenso, mischiato all’odore di terra bagnata. Non posso godermi questo momento di beatitudine, perché non è il caso di lasciarlo da solo.
Pioveva, se non fosse stata la voce sgraziata e petulante di mio figlio, c’era un silenzio spettrale. Era un luogo perfetto per un omicidio quella mattina, nella quale anche l’asfalto mandava bagliori di lama tagliente.
Pensai alla trama di un racconto dal sapore noir erotico, avente per protagonista Rimbaud e la Poesia.
Visto che tra strilli, pioggia e pipì si erano fatte quasi le dieci, tornai verso casa.
La pioggia tintinnava sul tetto della macchina, la luce continuava a essere quella della otto, perché le nuvole non avevano ancora smaltito e rimanevano grasse, scure e minacciose.
Stavo pensando a come avrei impostato il racconto, quando vidi due ragazze ai margini di una strada deserta, riparate da un ombrello sbilenco, che credo aspettassero un autobus di linea.
Vederle e fermare il motore non è stato tutt’uno, perché sono lenta, ma siccome non passava un cane, sono tornata a marcia indietro.
Per un attimo ho pensato che potessero rapinarci lasciandoci in mezzo alla strada, ma pioveva e ho rischiato.
Penso che mi abbiano visto come la Madonna col bambino! Un bambino con la barba!
Cosa ci facessero in quel punto, dove non si vedevano case nei paraggi, non ricordo di averglielo chiesto.
Francamente quelle due, dalle quali comunque l’esperienza mi diceva di stare in allerta: tolta borsa e messa in mezzo alle gambe, hanno fatto smettere d’incanto le urla di mio figlio.
Due ragazze, pure carine, che piene di gratitudine lo hanno riempito di carezze, fino alla stazione di Ladispoli, un eventone! Che parlassero male l’italiano, visto che se non erro erano rumene, arrivate non da molto, a mio figlio non lo ha spaventato, l’importante che si facessero annusare. È furbo lui, fa tenerezza!
Quando le lasciammo si erano fatte le undici, ora la mattinata della rilassante domenica era dedicata a dare una pulita ai bagni e alle camere, finire di preparare il pranzo e magari abbozzare il racconto, prima che le idee volino via.

È facile dire domenica a gente come noi.

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